Pensieri e Parole

Trauma e EMDR

Quando la persona si trova ad affrontare un’esperienza soverchiante, potenzialmente mortale, fonte di choc e disorientamento, in cui l’integrità fisica e psichica propria o altrui sia minacciata, si parla di Trauma.

Spesso queste esperienze, che per la loro natura dirompente la mente non riesce a tollerare, sfociano nello sviluppo di un Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), in cui il ricordo dell’evento nelle sue componenti sensoriali, emotive e cognitive resta intrappolato nella psiche sotto forma di flashback improvvisi. Il trauma viene così rivissuto dalla persona come se stesse accadendo di nuovo, nel momento presente, generando angoscia e disagio tali da interferire con la sua qualità di vita.

Soffrire a causa del ricordo di un’esperienza traumatica che continua a rimanere ‘viva’ nella mente, può comportare un importante punto di rottura della continuità psichica e mantenere la persona in un tempo sospeso, dove la capacità di metabolizzare ed elaborare le esperienze viene interrotta.

A partire dagli anni ’80, le intuizioni e gli studi di Francine Shapiro portano allo sviluppo del metodo denominato E.M.D.R. (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) il cui obiettivo è lavorare sul ricordo traumatico rimasto inelaborato nella mente del soggetto, attraverso sedute di stimolazione binoculare (o, in alternativa, mediante il tapping). Tale tecnica consente di integrare le connessioni neurali dove il ricordo è immagazzinato ma inelaborato, con il resto delle reti neurali degli emisferi cerebrali, desensibilizzandolo, rendendolo cioè meno intenso e invasivo per la persona. L’evento traumatico diviene così parte dell’esperienza emotiva del soggetto come qualcosa che fa parte del passato, finalmente più distante e inserito in una visione più matura, integrata e adeguata.

 

Dott.ssa Elena Cafasso, psicologa psicoterapeuta Chieri e Torino 

 

 

 

Intrusione ed estrazione parentale: gli “spoilt children”

Tratto da “Psicoanalisi come percorso” di F. Borgogno, 1999

“Molti dei pazienti difficili che noi trattiamo hanno così, a mio avviso, vissuto esperienze di annientamento psichico subdole, sottili e ardue da decodificare, e spesso non è stato loro concesso, o quasi, di esistere come persone individualizzate ma solo come appendici di qualcun altro contro la loro stessa volontà. I loro bisogni di base sono stati pertanto ignorati e non hanno ricevuto una reale tutela e cura.

In passato si consideravano le angosce e le difese da essi sviluppate prevalentemente nei termini di resistenze più o meno primitive e frutto di conflitto, quando non innate ed espressione di attacchi (…). Sempre più, invece, nelle recenti pubblicazioni le si esplora altresì quale risultato di (…) forme di comunicazione patologica introiettate nello stesso ambiente di vita (analisi inclusa) in cui si viene o si è stati allevati.

(…) In tale linea, come mio contributo, rifletterò su un piccolo scritto di Paula Heimann (1975c), ai più sconosciuto, che commenta e amplia il concetto di trauma cumulativo di Masud Khan per porre un importante quesito circa l’amore dei genitori.

Riconsiderando la frequente descrizione, in psicoanalisi, di genitori iperprotettivi e iperindulgenti come causa di grave patologia, la Heimann si chiede: ma davvero questi genitori apprezzano il bambino, realmente lo capiscono, effettivamente lo amano? E così risponde:

“Il più delle volte succede che non possano essere disturbati dal loro bambino, che non se ne possano concretamente occupare, che non possano essergli disponibili nella mente e nel corpo offrendo loro tempo e sforzo, e che si liberino dei loro obblighi genitoriali soddisfacendo magari bisogni e desideri, anche prima che il bambino li senta. Crescere in un siffatto ambiente crea spoilt childern”.

Seguendo Paula Heimann (…) cercherò adesso di definire che cosa è uno spoilt child, tenendo presente che l’ambiente da cui provengono numerosi nostri pazienti è sovente assai più deprivante e intrusivo di quello offerto dai genitori iperindulgenti e iperpermissivi che Masud Khan (1974) indica come patogeni.

E’ un bambino in cui non soltanto vengono posti proiettivamente delle esigenze, dei bisogni, dei desideri che non sono suoi, ma da cui vengono estratte aree di espressività e di esistenza. L’evoluzione, che per diritto naturale spetterebbe ad ogni essere, viene così del tutto o in parte impedita e bloccata. Il bambino risulta infatti espropriato di qualcosa di suo e di specifico, trovandosi depositato internamente qualcosa di alieno ed estraneo, che proviene dai genitori e che in molti casi uccide ogni vita e ogni crescita.”

 

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Il Disturbo Borderline di Personalità

Il Disturbo Borderline di Personalità riguarda un disfunzionamento a livello dell’immagine di sé e degli altri, un deficit nella regolazione affettiva e del pensiero, una tendenza all’impulsività. Il tratto caratteristico di questo modo di essere è paradossalmente una stabile ‘instabilità’. Le intense onde emotive che accompagnano il mondo interiore di coloro che ne sono affetti, l’immagine di sé e degli altri contraddittoria, polarizzata sulla logica ‘buono o cattivo’, l’instabilità relazionale e gli intensi agiti sono alcuni degli aspetti caratteristici e più problematici che la persona si trova a vivere.

Instabilità, ambivalenza, emozioni caotiche e difficilmente controllabili, sbalzi d’umore, tendenza alla depressione e all’aggressività autodiretta sono dunque tipici del funzionamento di questa organizzazione di personalità. Sullo sfondo di questo panorama, il senso di Sé è vago, precario, immaturo, incerto. Questi soggetti si sentono spesso smarriti, come ‘persi’, vuoti. Essi non hanno sviluppato un senso di identità integrato, coerente nel tempo e nello spazio, presentano una dispersione dell’identità.

Come non hanno un’immagine integrata e stabile di loro stessi, essi non possiedono nemmeno una rappresentazione interiorizzata costante e integrata dell’Altro: in queste persone, non è stata raggiunta la costanza dell’oggetto. In altre parole, essi non hanno potuto introiettare un’immagine dell’Altro significativo come oggetto costante, presente nel loro mondo interno anche in assenza di vicinanza fisica. Manca in loro la possibilità di fare appello ad un oggetto interno buono, consolatorio, cui fare riferimento quando si sentono in difficoltà. Ne conseguono importanti vissuti abbandonici, iper adattabilità all’Altro, sentimenti intensi e inconsolabili di solitudine, forte sensibilità alla critica e al distacco, grave e intensa svalutazione di sé o dell’Altro in alternanza.

In relazione a questi aspetti, è da sottolineare l’utilizzo di meccanismi di difesa primitivi come l’idealizzazione e la svalutazione, come detto in precedenza, di sé e dell’Altro. Quando è l’idealizzazione ad investire il Sé, essa è orientata a mantenerne un’immagine perfettamente soddisfacente, senza falla alcuna, mentre tale immagine si fonda in realtà sulla convinzione profonda, costantemente combattuta, di un difetto di base, di un non amabilità, di un buco incolmabile nella rappresentazione che il soggetto ha di se stesso.

Per questi soggetti, il lavoro psicoterapico diviene di fondamentale importanza. La terapia ad orientamento psicoanalitico può costituire un’occasione per vivere un’esperienza relazionale che vada a bonificare l’instabilità interpersonale ed emotiva; può supportare la persona nello sviluppo della capacità riflessiva aumentando la consapevolezza di sé e la possibilità di ‘pensare’ prima di agire, imparando a modulare l’impulsività; può aiutare la persona nella stabilizzazione e nel raggiungimento di un Sé stabile, più coeso e integrato, nel ridimensionare le tendenze svalutanti e idealizzanti che investono l’immagine di sé e degli altri, scoprendo un modo più equilibrato di fare esperienza.

 

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Maggio 2020 – Ripresa attività in studio

RIAPERTURA STUDIO DI PSICOTERAPIA CHIERI

Un po’ più distanti e con qualche attenzione in più.. Ma di nuovo insieme
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Nel rispetto delle misure preventive anti-contagio lo studio riprende la sua attività. Resta a disposizione, qualora la si prediliga, la modalità online.

Accedi alla pagina CONTATTI per fissare un appuntamento.

Dott.ssa Elena Cafasso, Psicologa Psicoterapeuta Chieri & Torino

Attaccamenti traumatici

Il trauma psichico

Il disconoscimento della propria soggettività all’interno delle relazioni significative primarie con le figure di attaccamento può originare nel bambino un trauma psichico ripetuto, cumulativo, che frattura la sua realtà interna e lo allontana dal senso di essere “soggetto”, lo priva di importanti dimensioni del proprio essere. Si parla così di attaccamenti traumatici.

Dalle parole di Albasi:

“La sofferenza legata agli attaccamenti traumatici è di segno “negativo” (non nel senso di intensi affetti negativi, ma della loro perdita),  lascia un senso interno di morte, di non vitalità in alcune dimensioni di sé e delle proprie relazioni, di non movimento dei pensieri, di non possibilità di regolazione degli affetti, di non significato delle cose. (…)

Crescere in un contesto di attaccamento traumatico significa crescere in un contesto in cui non si sviluppa un processo di riconoscimento della specificità del bambino, dei suoi bisogni, della sua spontaneità, delle sue uniche e irripetibili modalità di micro-regolazione degli stati interni, della sua sensibilità, (..) della sua soggettività.”

tratto da “Attaccamenti traumatici. I Modelli Operativi Interni Dissociati” di C. Albasi

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Dott.ssa Elena Cafasso, Psicologa Psicoterapeuta Chieri e Torino

Il piccolo principe: L’essenziale è invisibile agli occhi

“Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.”

“E’ il tempo che hai speso per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante.”

tratto da “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry

 

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Dott.ssa Elena Cafasso, Psicologa Psicoterapeuta Chieri e Torino

 

Riflessioni dalla quarantena: la ‘casa’ interiore

In tempo di quarantena ci si interroga, forse un po’ più del solito. Ci si ritrova in uno spazio limitato e in un tempo dilatato, spesso spogliati delle nostre abitudini e un po’ smarriti.

Ma che significato ha lo stare in quarantena per ciascuno di noi? Quali pensieri e quali emozioni scatena in noi la limitazione del nostro spazio vitale, e come li affrontiamo?

In questo frangente, ad essere messa alla prova è la nostra capacità di ri-adattamento, di ri-organizzazione del quotidiano e di quel “fare”, che molto spesso ha la funzione più o meno consapevole di allontanarci da ciò che più spaventa: il contatto con la nostra interiorità, con i pensieri, i vissuti, i conflitti che a volte abitano le retrovie della nostra mente e che tentiamo di non guardare volgendo lo sguardo altrove, riempiendo le nostre giornate di “cose”, attività e occasioni di interazione. “Azioni”, queste, che molto spesso assumono la valenza di scarica, distrazione, compensazione e autoconsolazione, ma che forse in fondo oscurano la nostra visuale da un’unica domanda fondamentale di base: chi sono?

Cosa resta di me spogliato delle mie abitudini, del lavoro che dà così senso alle giornate, della costellazione di relazioni che ruotano attorno a me? Cosa, nella mia storia, mi ha reso ciò che sono oggi? Posso stare a contatto con quello che provo senza andare in pezzi? E se vado in pezzi, posso ricomporli? Di che qualità è lo scheletro psichico ed emotivo che regge la mia interiorità? Perché è la qualità di queste fondamenta a darci la misura della fragilità o della nostra forza psichica; essa, è alla base della nostra capacità di ‘stare soli’, di tollerare la frustrazione, l’angoscia, il vuoto. Un’impresa così ardua, a volte, così spaventosa, ma talmente importante da essere l’unica via, quella autentica, per raggiungere ciò che andiamo cercando per una vita intera: noi stessi.

Forse resta questo l’unico posto in cui cercare, dopo tanto peregrinare all’infuori di noi: la “casa”, quella interiore.

Dott.ssa Elena Cafasso, Psicologa Psicoterapeuta Chieri e Torino

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Emergenza Covid-19

In questo tempo di emergenza e di necessaria condivisione di solidarietà e senso civico per arginare la diffusione del Covid-19, l’attività psicoterapeutica vis à vis dello studio viene sospesa per 15 giorni in ottemperanza al decreto ministeriale del 12 marzo 2020 che impone misure restrittive importanti.

Per coloro che abbiano necessità di un colloquio psicologico urgente, resto a disposizione attraverso la modalità di videochiamata whatsapp, in attesa di poter riprendere il lavoro vis à vis così importante per la relazione terapeutica.

Scarica il vademecum per la gestione dell’ansia e del panico stilato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi:

PIEGHEVOLE CNOP

e se hai necessità di sostegno psicologico, non avere timore di contattare un professionista.

                                                                                                       Dott.ssa Elena Cafasso, Psicologa Psicoterapeuta Chieri e Torino

Attaccamento e individualità

A proposito di… Attaccamento

“Solo negli ultimi anni lo studio dello sviluppo dei modelli di attaccamento si è spostato dalla prima e dalla seconda infanzia all’analisi dell’età adolescenziale e adulta, attraverso progetti di ricerca longitudinali volti a studiare la stabilità dei modelli operativi interni di attaccamento nel corso dello sviluppo. Gli studi precedenti infatti – insieme a quelli riguardanti la trasmissione intergenerazionale dei modelli di attaccamento da genitore a figlio, (…) avevano soprattutto messo in evidenza la forza predittiva dei pattern di attaccamento sicuri e insicuri rispetto alle competenze socioemotive e alle caratteristiche della personalità del bambino considerate a breve e a medio termine. Secondo un insieme cospicuo di ricerche ben riassunte da Schaffer (1996) – i pattern di attaccamento rispetto alla madre (…) si delineano infatti efficaci predittori di un insieme rilevante di competenze sociali che il bambino dimostra  nel periodo prescolare e scolare, tra le quali la capacità di costruire relazioni significative con gli adulti e di interagire con i pari, dimostrando empatia e al contempo capacità di leadership, oltre che emotive, quali l’abilità di comunicare, fronteggiare e regolare emozioni positive e negative. La qualità dell’attaccamento alla madre risulta inoltre correlata con aspetti cruciali della personalità, a partire dall’autostima e dalla fiducia in se stessi fino alla capacità di resilience rispetto a eventi stressanti e potenzialmente traumatici.

Molti studi hanno messo in evidenza, attraverso l’utilizzo dell’Adult Attachment Interview, strumento che si propone di esplorare lo ‘stato della mente’ del soggetto adulto circa le sue esperienze di attaccamento, come nel corso dello sviluppo si strutturi uno stato mentale rispetto all’attaccamento  ‘che riassume la qualità complessiva dei modelli di attaccamento costruiti dal soggetto nelle sue diverse esperienze’. In questo senso, ‘le competenze socioemotive che il bambino sviluppa dopo la prima infanzia vengono predette non da un singolo modello di attaccamento, ma dall’insieme dei modelli di attaccamento di cui il bambino dispone (con la madre, il padre, i caregiver), anche se quello materno sembra avere un maggiore peso.”

La sicurezza, la fiducia in se stessi, le competenze di regolazione emotiva si intessono dunque all’interno delle relazioni di attaccamento significative vissute dal bambino nella prima infanzia e sono fortemente influenzate dal tipo di attaccamento che caratterizza il caregiver stesso e il modo in cui egli si relaziona al bambino. Una più alta fiducia in se stessi e una qualità maggiore circa le competenze relazionali sono correlati con una buona responsività materna, dunque con una capacità di attaccamento sicuro da parte del caregiver.

Tratto da ‘Il bambino e le sue relazioni‘, di Cristina Riva Crugnola

Leggi anche…   Il linguaggio delle emozioni

                                                                                                       Dott.ssa Elena Cafasso, Psicologa Psicoterapeuta Chieri e Torino

Il linguaggio delle emozioni

“John Bowlby afferma che ‘l’attaccamento intimo ad altri esseri umani costituisce il perno intorno a cui ruota la vita di una persona, non solo nell’infanzia, nella pubertà e nell’adolescenza, ma anche negli anni della maturità e poi ancora nella vecchiaia’ (Bowlby, 1980). Bolwby pensa che le emozioni siano legate in modo caratterizzante con l’attaccamento:

        Molte emozioni particolarmente intense si presentano durante la formazione, il mantenimento e il ricostituirsi delle relazioni d’attaccamento. La formazione di un legame è descritta come innamoramento, nel senso che si mantiene un legame perché si ama, e si soffre perché si perde il partner. similmente, una minaccia di perdita suscita dolore; così ciascuna di queste situazioni è probabile che susciti rabbia. il mantenimento incontestato di un legame è vissuto come una fonte di gioia. (Bowlby, 179).

Come abbiamo visto (…), le emozioni possono essere considerate valutazioni intuitive dell’esperienza che ne fondano il significato soggettivo. In questa seconda parte si studieranno alcuni contributi ad orientamento relazionale che permettono di vedere come la mente si strutturi sugli affetti e sulla loro regolazione interna e interattiva.

Secondo Emde, l’attività di base e la predisposizione biologica del bambino presentano la caratteristica della ‘centralità dell’emozione’ nell’esperienza relazionale: la sua esperienza viene regolata in base al criterio della piacevolezza-spiacevolezza. Gli affetti organizzano la soggettività e forniscono un senso di coerenza nell’esperienza quotidiana. Si può dire che il bambino si comporta in modo da ‘sentirsi bene’. Emde sostiene l’esistenza di un ‘nucleo affettivo alla base dell’esperienza di Sé’, che fornisce tanto un senso di continuità nel corso del cambiamento evolutivo quanto un senso di empatia verso gli altri. L’affettività è al centro della nostra identità e delle nostre relazioni. La regolazione dell’affettività è una delle preoccupazioni umane fondamentali.

(…) nei confronti delle figure di riferimento dell’infanzia, figure di attaccamento dalle quali dipende la stessa esistenza fisica e in seguito l’esistenza psicologica ed emotiva, possono essere in gioco emozioni discordanti, così forti da non poter essere elaborate nello stesso stato di coscienza, neppure attraverso l’esperienza del conflitto interno; per le quali quindi, non è possibile trovare una soluzione di compromesso o una forma di integrazione, ma solo una via d’uscita dissociativa (Bromberg, 1998). L’esistenza di queste emozioni così contraddittorie e stridenti è realmente paradossale: crea una tensione che spinge la mente a forme di funzionamento che, se diventano ricorrenti, ripetitive e rigide, possono dar vita allo scompaginamento della struttura dell’esperienza personale, alla frammentazione della soggettività, ad una disorganizzazione dei sistemi di significato, come in compartimenti disconnessi e non comunicanti fra loro.”

tratto da Il linguaggio delle emozioni, di Antonella Granieri, Cesare Albasi

                                                                                                   Dott.ssa Elena Cafasso, Psicologa Psicoterapeuta Chieri e Torino